Prefazione Barbara Schiavulli - giornalista di guerra - www.radiobullets.com
Qualcuno lo ha vissuto come un Deja Vu, come si legge in questi racconti, per altri è stato come precipitare in un incubo ricorrente dal quale ci si sveglia urlando. Il 15 agosto 2021 quando i talebani hanno completato la loro conquista dell’Afghanistan, con la presa di Kabul, per gli afghani è tutto cambiato. Un salto indietro nel tempo a quegli anni ’90 che per 20 anni hanno cercato di dimenticare. Un salto indietro per una società, almeno quella urbana, che non è più retrograda come allora. E ora, come un terremoto, i talebani sono ovunque, per le strade, sui mezzi americani, in divisa dell’esercito afghano. Dentro gli hotel, sulle poltrone del potere. Pregano sulle aiuole, girano con dei bastoncini per bacchettare la schiena di chi non si comporta come loro vogliono. Hanno imposto la Sharia, la legge islamica, nelle sue più rigide definizioni. Oltre i 12 anni le ragazze non possono più andare a scuola, le donne non possono più lavorare, e nel giro di poche ore la società civile che si era faticosamente costruita in due decenni di presenza straniera, è andata sotto traccia. Chi non è riuscito a lasciare il paese, ora si nasconde, che siano giornalisti, artisti, insegnanti, attivisti, chi ha lavorato con gli eserciti stranieri e chi con le organizzazioni umanitarie. La voce delle donne si è spenta, così come la musica e lo sport per le donne. Molti vedono i talebani come più raffinati, la leadership parla un inglese imparato nelle prigioni internet, usa l’Iphone di ultima generazione, ha capito come fare propaganda, dice all’Occidente quello che vuole sentirsi, per pararsi una coscienza che più sporca non potrebbe essere. Ma in realtà non è cambiato molto. C’è un detto afghano che dice che “puoi cambiare la sella ad un asino, ma sempre asino resta”, e così è e la gente lo sa e li teme. Il governo che hanno nominato è tutto tranne che inclusivo, tutti i vecchi degli anni ’90 che non sono morti, sono ai posti di comando. Le donne sono segregate, torna la legge del taglione. Perfino i murales degli artisti sono stati cancellati per le strade di Kabul così come sono state tagliate le teste dei manichini femminili nei negozi. Come se non bastasse tutto questo, un altro incubo incombe sul paese degli aquiloni, ed è la crisi economica combinata con il cambiamento climatico. Secondo le Nazioni Unite, il 97 per cento dei 36 milioni di afghani, sarà nel 2022 al di sotto della soglia di povertà. Corruzione, disoccupazione, siccità, aumento dei prezzi, banche e confini chiusi, hanno messo il paese in ginocchio, senza contare che l’Afghanistan viveva dei finanziamenti dei paesi donatori che sono stati congelati non appena i talebani hanno preso il potere. Il denaro non circola, ci sono 550 mila sfollati, l’aumento di bambini malnutriti è oltre la semplice preoccupazione. Il paese è sull’orlo della catastrofe e i talebani sono guerrieri, non sanno come gestire uno Stato, nonostante la regia del Pakistan e dei paesi che continuano a dialogarci. Cina, Qatar, Turchia, Iran sono più concentrati a gestire i loro interessi che a preoccuparsi dei diritti degli afghani, esattamente come ha fatto l’Occidente abbandonando la popolazione e svendendo il governo che aveva creato, pur di ritirarsi incolumi. L’Afghanistan sta andando a pezzi, ma in frantumi è andata anche la moralità di un Occidente che ha tradito i sogni e le speranze di una società civile che era pronta a spiccare il volo e che con le ali legate, è stata costretta a rinchiudersi tra le mura che sembrano più quelle di una prigione che di casa. A Kabul, come altrove, l’Afghanistan è tornato indietro almeno di vent’anni, come si ritrova nei racconti di Gabriele Maniccia. Solo che, a quel tempo, la violenza talebana sembrava passata e si stava diffondendo la speranza di una convivenza civile. Purtroppo oggi, anche per nostra responsabilità, gli afghani sono ripiombati nel buio talebano e gli sguardi delle donne sotto il burqa sono ancor più negati.
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